Prefazione
IL DOLORE : UNA MUSICA LONTANA
Non esiste solo un altro modo di godere (
l’Eros della lontananza ) cantato negli ultimi
due libri di Maria
Fontana Cito, ma anche un altro modo di soffrire, che potremmo
chiamare il Pathos
della lontananza, o meglio ancora : la lontananza del Pathos.
In questo quarta raccolta di poesie di una
scrittrice cui, assai più del lavoro lessicale,
sintattico o stilistico, sta a cuore
l’espressione immediata del tumulto dell’esistenza,
dove l’ebbrezza si lega alla cosmografia della
sventura, entra più vistosamente in scena la crudeltà della vita ( vedi Meteorite ), il “ dolore profondo e
sottile/ che svuota
le braccia/ e rende
deboli le gambe “ ( Voglia di piangere
). Maria Fontana Cito scrive
di getto, denuncia “ freddori “ – jacoponiani! – ( Preghiera ), lacerazioni e rattrap-
pimenti, routines e
gabbie del quotidiano ( Il lume e Donne
), menti sommerse da ri-
gurgiti di tristezza ( Blob ), nausee del gregarismo
massificante ( Ma io, chi sono ? e
Le maschere ) e, quasi in trance,
riesce a cogliere quegli aspetti disgreganti del post-
umano su cui, in una lettera a Lou Salomè, ebbe modo di
soffermarsi anche Rilke :
“ Oh, che mondo è mai questo
! Pezzi, pezzi di uomini, parti di animali, residui di cose
che sono state, e tutti
che si muovono ancora, scompaginati da un vento sinistro e,
trascinati, trascinano,
cadenti si scavalcano nella caduta “ ( Pezzi
di me come giocat-
toli rotti …. fa eco M.F.Cito in Frammenti )….
Maria Fontana, tuttavia, non contrasta fino
in fondo il dolore. Sembra quasi tendere
l’orecchio e percepire
in modo straniante che anche il dolore è musica o, per lo meno,
che le sue vibrazioni
scaturiscono dalle stesse onde di energia che sovrastano insieme
il patimento e
l’estasi. Di qui una specie di incantamento meditativo, accompagnato da un vago
dondolìo ritmico, che volge ogni pena in una cadenza prossima alla rima
perfino nei casi più
traumatici. E’ come se si stesse tentando di soffrire senza soffrire.
Allora anche l’ombra
dei morti ( Padre ) è appena
sorvolata da una musica lontana, simile a quella di cui parla Joyce
nell’ultimo, splendido racconto di “ Gente di Dubli-
no “, l’amarezza si
converte lorchianamente in celeste miele, gli schiaffi della vita si
trasformano in
fruscianti tremoli d’archi e glissandi d’arpa e le schegge disperse del-
l’io diventano
scintille di luce sulla superficie dei mari. Nel momento stesso in cui la
dolorosa contrattura
viene poetizzata e scritta, si distende in godimento musicale,
giacché – come soleva
dire Lacan – “ l’écrit est la jouissance “… Se, quindi, l’avventu-
ra di linee che è la
scrittura fa palpitare nel deserto più devastato i lineamenti del viso
dell’Amato, ciò è
dovuto proprio al suono della lontananza, che mette in dissolvenza,
nella lunga prospettiva
degli anni, ogni ferita e ogni “ malattia dello spirito “ ( termine
manniano inconsapevolmente
usato da M.F. Cito; cfr. Un cesto di
fiori, Ricorderò,
Dalla Rocca, Inizi, Musa aretina, La stella, Musica dell’oblio,
Cupido, etc. ). Melodie di tormenti che
bruciano, ma ormai da lontano… Sorrisi sempre di nuovo germinanti
dagli strazi, che
chiedono al pianto di ballare. Voci
provenienti da tempi immemorabili, ma che, una volta udite, spezzano per sempre
l’inerte sequenza dei giorni : “ Dolce
Voce, come il vento delle spiagge venuto da chissà dove,…..è da quel
tempo che nel lutto
rido e piango nelle feste e che apprezzo per soave il vino più amaro; che
spessissimo prendo fatti concreti per finzioni e che, con gli occhi al cielo,
cado in buche. Però la
Voce mi consola e dice : Custodisci i tuoi sogni : i saggi non ne
hanno di così belli
come ne hanno i pazzi “…. ( Charles Baudelaire ).
Paolo Ramaccioni